La Taverna dell'impiccato
Hermann arrivò alla taverna dell’impiccato la sera tardi. Legò al palo il suo
vecchio ronzino e gli diede del fieno. Nel viaggio aveva smarrito la strada ma
poi l’aveva ritrovata. Aveva fissato un appuntamento per l’indomani a
mezzogiorno con Jan Potocki. La porta d’ingresso della taverna era solo
accostata e cigolò quando lui la spinse ed entrò reggendo la sua vecchia
valigia. La tavola zoppa era apparecchiata: una tovaglia pulita a rombi rossi e neri,
un piatto di portata, coltello, forchetta e bicchiere. Al centro una bella caraffa
di ceramica, colma di vino rosso profumato. Su di una panca, di fianco al
tavolo, era acceso un lume a petrolio e diffondeva una calda luce rosata sulle
pareti bianche a calce e sulle travi del soffitto. Era trascorsa solo una decina di
minuti quando la porta d’ingresso si aprì dolcemente. Entrò un monaco
col saio, il suo viso era coperto e nascosto da un cappuccio. Hermann intravide
due occhi neri e febbrili affondati nell’ombra. Due mani lunghe e secche
deposero sul tavolo due pani integrali a forma di pigna e un piatto di
tonno e fagioli. Senza salutare, veloce e leggero come era venuto, il monaco
uscì silenzioso. Hermann notò un giaciglio di tela di sacco steso davanti al
camino freddo e spento. Una corda grossa con cappio pendeva da una trave
del soffitto polverosa e rosa dai tarli. Hermann si accomodò sulla vecchia sedia
sgangherata e mangiò con appetito tonno e fagioli annaffiando il pasto
col caldo vino rosso aromatico.
Si sentiva meglio adesso. Avrebbe bevuto volentieri un denso e schiumoso
caffè turco. Il trattamento che aveva ricevuto alla taverna dell’impiccato
era stato nettamente superiore alle sue aspettative.
Hermann si spazzolò velocemente con le mani i suoi lunghi capelli gialli impolverati.
Cercò uno specchio per rimirare il suo volto ma non trovò lo specchio da nessuna
parte. Hermann era un viaggiatore inquieto. Figlio di un mercante di schiavi
norvegese e di una egiziana del Cairo, cercava cose nuove e preziose, investendo
l’eredità paterna in oggetti esotici e raffinati. Doveva incontrare il conte
Jan Potocki che gli aveva promesso una copia originale del suo romanzo,
”Il manoscritto trovato a Saragozza”. La terza copia, appunto.
Il manoscritto era stato scritto di suo pugno dal conte nella sua tenuta
in Podolia, a Uladowka, durante una breve tregua, tra il suo viaggio in Cina,
come corriere diplomatico dello zar Alessandro, e la sua missione in Portogallo.
Come compenso Hermann gli avrebbe consegnato una cospicua somma
in sterline per finanziare i suoi viaggi costosi.
Hermann sperava in cuor suo di non andare incontro a uno scacco e di coronare
Il suo sogno. Doveva cogliere l’occasione prima che Jan Potocki morisse.
Aveva consultato la sua maga. Lei gli aveva consigliato di affrettarsi perché
il destino di Potocki era incerto e offuscato da ombre e presagi.
Hermann, dopo essere venuto in possesso del manoscritto, lo avrebbe messo
al sicuro nella cassaforte del suo palazzo a Kristiansand. Avrebbe partecipato
poi all’escursione in mongolfiera da Varsavia a Mosca, sempre che la direzione
e la forza dei venti l’avesse permesso.
Hermann si riscosse dai suoi pensieri. Si sentiva un po’ esaltato dal vino
ed un po’ dall’attesa e dalla solitudine. Si senti soffocare dalle pareti
della taverna e dal lugubre cappio che penzolava dal soffitto. Così per cercare
un po' d’aria aprì la porta e guardò fuori. Era buio pesto. Un deserto di sabbia
e di sassi, due alberi scheletrici e secchi. Un po’ più in là si intravedevano le
montagne della Sierra Morena. Ed ecco a venti metri la visione della figura magra
e curva di un vecchio in un mare di nebbia. Un cane di pelo nero
giaceva sdraiato, accanto al vecchio, dormiva un sonno agitato.
Di tanto in tanto ululava, assediato dagli incubi.
Hermann rientra e si corica sul giaciglio di tela senza svestirsi. E’ stanco e si
addormenta anche se è un po’ angosciato a causa della porta che non è riuscito
a chiudere ed è rimasta accostata. Il lume a petrolio è acceso.
Hermann dorme e russa, sognai fiordi di Stavanger, alti, perpendicolari sul mare,
con le cime a guglia innevate.
A notte fonda sbatte la porta. Una figura di donna vestita da gitana è entrata
nella stanza, ha una gonna a papaveri ed una rosa purpurea tra i seni.
Si avvicina, gli sorride maliziosamente. Il suo sorriso però fa intravedere
un buco nero al posto di un canino. ”Lasciati scaldare” gli dice, gli si adagia
di fianco. Di tanto in tanto la porta sbatte. Come se entrassero e uscissero
dalla taverna delle presenze, spiriti, figure di persone conosciute e scomparse,
che ogni tanto chiamano: “Hermann”in modo ossessivo e poi se ne vanno.
La notte passa lentamente in un dormiveglia febbrile, una sfilata di ricordi
confusi e il crepitio della sabbia lanciata dal vento contro la porta.
Arriva l’alba. La gitana se n’è andata da un pezzo. Nel posto dove era sdraiata
c’è un tizzone di un legno bruciato. Hermann si alza, si stira le braccia e le gambe
rattrappite. Si affaccia sulla porta. C’è il sole. Hermann esce, si siede su di un sasso
di fianco alla porta, per scaldarsi le ossa ai raggi del sole di ottobre.
Mastica e manda giù qualche boccone del pane raffermo avanzato. Aspetta
mezzo addormentato che arrivi mezzogiorno.
Chissà se Jan Potocki si farà vivo col suo manoscritto, se è sopravvissuto agli
agguati dei predoni della Sierra Morena. Il conte Jan è uno studioso di Cabala.
Sa schivare i pericoli mortali. Ha avuto esperienza di tanti popoli, anche di quelli
più barbari, dei quali ha studiato i costumi. Arriverà. Se non è morto.
Là in lontananza, dove iniziano le montagne scorrono figure come ombre cinesi.
Sono miraggi o carovane? Forse sono processioni di frati e di penitenti alla festa
del santo patrono di Granada o si tratta di un ringraziamento per la fine di una
pestilenza. Arriverà Jan Potocki?
Ecco una carrozza che si avvicina. Si ferma a dieci metri. Due cavalli arabi
tirano il fiato. Jan salta giù dalla carrozza. E’ un po’ ingrassato, ha l’aria tirata,
le occhiaie sotto gli occhi, la parrucca di traverso. Hermann gli va incontro col suo
sacchetto colmo di sterline di nuovo conio, e lo saluta con un mezzo inchino.
Potocki risponde al saluto. Si parlano in francese. ”Eccovi il manoscritto” gli dice
Potocki e gli porge la sacca di velluto rosso che contiene il libro.
Parlano brevemente dei viaggi che li attendono. Jan consulta il suo orologio e
gli dice “Mi spiace, ho il tempo contato”. ”Ma se le capita di passare in Podolia,
venga a trovarmi, sarò felice di ospitarla”. Si fanno un altro inchino. Potocki
risale in carrozza. Il vetturino schiocca la frusta, la carrozza va via in una nube
di polvere sulla strada sassosa. Hermann si decide ad aprire la sacca rossa.
Ecco il manoscritto vergato con penna d’oca ed inchiostro di China ma c’è anche
una pallottola d’argento. Hermann è stupito. Scriverà a Jan Potocki.
Ma prima farà la sua gita sul dirigibile.
Se ne andrà anche al più presto dalla taverna dell’impiccato.
Altri viaggiatori gli hanno riferito che è il luogo di incontro degli indemoniati
e che è pericoloso fermarsi lì. Così rifocilla il cavallo e riparte per il lungo
viaggio di ritorno.
vecchio ronzino e gli diede del fieno. Nel viaggio aveva smarrito la strada ma
poi l’aveva ritrovata. Aveva fissato un appuntamento per l’indomani a
mezzogiorno con Jan Potocki. La porta d’ingresso della taverna era solo
accostata e cigolò quando lui la spinse ed entrò reggendo la sua vecchia
valigia. La tavola zoppa era apparecchiata: una tovaglia pulita a rombi rossi e neri,
un piatto di portata, coltello, forchetta e bicchiere. Al centro una bella caraffa
di ceramica, colma di vino rosso profumato. Su di una panca, di fianco al
tavolo, era acceso un lume a petrolio e diffondeva una calda luce rosata sulle
pareti bianche a calce e sulle travi del soffitto. Era trascorsa solo una decina di
minuti quando la porta d’ingresso si aprì dolcemente. Entrò un monaco
col saio, il suo viso era coperto e nascosto da un cappuccio. Hermann intravide
due occhi neri e febbrili affondati nell’ombra. Due mani lunghe e secche
deposero sul tavolo due pani integrali a forma di pigna e un piatto di
tonno e fagioli. Senza salutare, veloce e leggero come era venuto, il monaco
uscì silenzioso. Hermann notò un giaciglio di tela di sacco steso davanti al
camino freddo e spento. Una corda grossa con cappio pendeva da una trave
del soffitto polverosa e rosa dai tarli. Hermann si accomodò sulla vecchia sedia
sgangherata e mangiò con appetito tonno e fagioli annaffiando il pasto
col caldo vino rosso aromatico.
Si sentiva meglio adesso. Avrebbe bevuto volentieri un denso e schiumoso
caffè turco. Il trattamento che aveva ricevuto alla taverna dell’impiccato
era stato nettamente superiore alle sue aspettative.
Hermann si spazzolò velocemente con le mani i suoi lunghi capelli gialli impolverati.
Cercò uno specchio per rimirare il suo volto ma non trovò lo specchio da nessuna
parte. Hermann era un viaggiatore inquieto. Figlio di un mercante di schiavi
norvegese e di una egiziana del Cairo, cercava cose nuove e preziose, investendo
l’eredità paterna in oggetti esotici e raffinati. Doveva incontrare il conte
Jan Potocki che gli aveva promesso una copia originale del suo romanzo,
”Il manoscritto trovato a Saragozza”. La terza copia, appunto.
Il manoscritto era stato scritto di suo pugno dal conte nella sua tenuta
in Podolia, a Uladowka, durante una breve tregua, tra il suo viaggio in Cina,
come corriere diplomatico dello zar Alessandro, e la sua missione in Portogallo.
Come compenso Hermann gli avrebbe consegnato una cospicua somma
in sterline per finanziare i suoi viaggi costosi.
Hermann sperava in cuor suo di non andare incontro a uno scacco e di coronare
Il suo sogno. Doveva cogliere l’occasione prima che Jan Potocki morisse.
Aveva consultato la sua maga. Lei gli aveva consigliato di affrettarsi perché
il destino di Potocki era incerto e offuscato da ombre e presagi.
Hermann, dopo essere venuto in possesso del manoscritto, lo avrebbe messo
al sicuro nella cassaforte del suo palazzo a Kristiansand. Avrebbe partecipato
poi all’escursione in mongolfiera da Varsavia a Mosca, sempre che la direzione
e la forza dei venti l’avesse permesso.
Hermann si riscosse dai suoi pensieri. Si sentiva un po’ esaltato dal vino
ed un po’ dall’attesa e dalla solitudine. Si senti soffocare dalle pareti
della taverna e dal lugubre cappio che penzolava dal soffitto. Così per cercare
un po' d’aria aprì la porta e guardò fuori. Era buio pesto. Un deserto di sabbia
e di sassi, due alberi scheletrici e secchi. Un po’ più in là si intravedevano le
montagne della Sierra Morena. Ed ecco a venti metri la visione della figura magra
e curva di un vecchio in un mare di nebbia. Un cane di pelo nero
giaceva sdraiato, accanto al vecchio, dormiva un sonno agitato.
Di tanto in tanto ululava, assediato dagli incubi.
Hermann rientra e si corica sul giaciglio di tela senza svestirsi. E’ stanco e si
addormenta anche se è un po’ angosciato a causa della porta che non è riuscito
a chiudere ed è rimasta accostata. Il lume a petrolio è acceso.
Hermann dorme e russa, sognai fiordi di Stavanger, alti, perpendicolari sul mare,
con le cime a guglia innevate.
A notte fonda sbatte la porta. Una figura di donna vestita da gitana è entrata
nella stanza, ha una gonna a papaveri ed una rosa purpurea tra i seni.
Si avvicina, gli sorride maliziosamente. Il suo sorriso però fa intravedere
un buco nero al posto di un canino. ”Lasciati scaldare” gli dice, gli si adagia
di fianco. Di tanto in tanto la porta sbatte. Come se entrassero e uscissero
dalla taverna delle presenze, spiriti, figure di persone conosciute e scomparse,
che ogni tanto chiamano: “Hermann”in modo ossessivo e poi se ne vanno.
La notte passa lentamente in un dormiveglia febbrile, una sfilata di ricordi
confusi e il crepitio della sabbia lanciata dal vento contro la porta.
Arriva l’alba. La gitana se n’è andata da un pezzo. Nel posto dove era sdraiata
c’è un tizzone di un legno bruciato. Hermann si alza, si stira le braccia e le gambe
rattrappite. Si affaccia sulla porta. C’è il sole. Hermann esce, si siede su di un sasso
di fianco alla porta, per scaldarsi le ossa ai raggi del sole di ottobre.
Mastica e manda giù qualche boccone del pane raffermo avanzato. Aspetta
mezzo addormentato che arrivi mezzogiorno.
Chissà se Jan Potocki si farà vivo col suo manoscritto, se è sopravvissuto agli
agguati dei predoni della Sierra Morena. Il conte Jan è uno studioso di Cabala.
Sa schivare i pericoli mortali. Ha avuto esperienza di tanti popoli, anche di quelli
più barbari, dei quali ha studiato i costumi. Arriverà. Se non è morto.
Là in lontananza, dove iniziano le montagne scorrono figure come ombre cinesi.
Sono miraggi o carovane? Forse sono processioni di frati e di penitenti alla festa
del santo patrono di Granada o si tratta di un ringraziamento per la fine di una
pestilenza. Arriverà Jan Potocki?
Ecco una carrozza che si avvicina. Si ferma a dieci metri. Due cavalli arabi
tirano il fiato. Jan salta giù dalla carrozza. E’ un po’ ingrassato, ha l’aria tirata,
le occhiaie sotto gli occhi, la parrucca di traverso. Hermann gli va incontro col suo
sacchetto colmo di sterline di nuovo conio, e lo saluta con un mezzo inchino.
Potocki risponde al saluto. Si parlano in francese. ”Eccovi il manoscritto” gli dice
Potocki e gli porge la sacca di velluto rosso che contiene il libro.
Parlano brevemente dei viaggi che li attendono. Jan consulta il suo orologio e
gli dice “Mi spiace, ho il tempo contato”. ”Ma se le capita di passare in Podolia,
venga a trovarmi, sarò felice di ospitarla”. Si fanno un altro inchino. Potocki
risale in carrozza. Il vetturino schiocca la frusta, la carrozza va via in una nube
di polvere sulla strada sassosa. Hermann si decide ad aprire la sacca rossa.
Ecco il manoscritto vergato con penna d’oca ed inchiostro di China ma c’è anche
una pallottola d’argento. Hermann è stupito. Scriverà a Jan Potocki.
Ma prima farà la sua gita sul dirigibile.
Se ne andrà anche al più presto dalla taverna dell’impiccato.
Altri viaggiatori gli hanno riferito che è il luogo di incontro degli indemoniati
e che è pericoloso fermarsi lì. Così rifocilla il cavallo e riparte per il lungo
viaggio di ritorno.